WET : Un rito di guarigione dall’angoscia del vuoto: è uscito il febbraio WET, il nuovo progetto discografico di Celiodie.
L’autore di uno degli album-cult del minimalismo anni ’80, dopo ben 30 anni di silenzio, torna a stupire con un nuovo brand e un lavoro musicale di grande suggestione, cantando parole di David Foster Wallace.
INTERVISTA
Franco, benvenuto sulla nostra realtà. Partiamo subito parlando di te. Il tuo è un progetto che parte dagli anni ’80, con le prime sperimentazioni di musica elettronica e ci sorprende oggi con l’uscita di WET. Com’è stato affrontare quel periodo pionieristico?
Non dobbiamo dimenticare che i veri pionieri, negli anni ottanta, erano già dietro le spalle, tra gli anni sessanta e settanta: Walter/Wendy Carlos, i Tangerine Dream, e il ben più noto Keith Emerson sono stati dei giganti e dei veri rivoluzionari. Per quanto riguarda il mio lavoro l’aspetto in un certo senso innovativo era coniugare il minimalismo con l’elettronica, una accoppiata che fino a quel momento era rimasta poco esplorata. Alcuni dei mezzi elettronici allora a disposizione fornivano ottimi stimoli per creare musica di quel genere in modi nuovi. Indubbiamente gli strumenti elettronici che si sono succeduti nei primi anni ’80 avevano davvero qualcosa di innovativo come generazione sonora e come possibilità di elaborare suoni esistenti. Da quel punto di vista chi come me ha cominciato a esprimersi in quegli anni può dirsi un fortunato utilizzatore di nuove straordinarie tecnologie che oggi sono diventate la norma. In quegli anni scrivevo anche sulla rivista Strumenti Musicali, mi occupavo proprio di recensioni di nuovi strumenti elettronici.
Ne hai nostalgia?
Onestamente non troppo. A parte qualche grande disco, gli anni ottanta non sono stati un decennio particolarmente ricco e fortunato per la musica soprattutto se paragonato con quello che lo precede. Sul piano tecnico, però, manca un po’ il pathos dell’uscita di nuovi strumenti, mi riferisco in particolare al Prophet 5, al DX7, fino al Fairlight, che nuovi erano davvero, e aprivano interi mondi sonori sotto le mani dei musicisti. Oggi utilizzo una grossa Workstation, davvero bella da utilizzare, ma come architettura e prestazioni generali non si discosta molto da altre precedenti a partire dei primi anni 90.
Elicoide ed ora Celiodie. Quali sono le differenze tra i due progetti? Come si è trasformato il tutto? E come sei cambiato tu nel frattempo?
Il primo era un progetto che pareva follia in quegli anni, io avevo 26 anni e dopo qualche iniziale esperienza decisi di fare qualcosa che non somigliasse a nient’altro di ciò che ascoltavo, qualcosa di cui poter dire “questo potevo farlo solamente io”. In fondo la premessa di Celiodie non è totalmente diversa, ma qui l’idea è quella di arrivare ad un maggior numero di ascoltatori potenziali enfatizzando la mia sensibilità ritmica che si poteva avvertire in filigrana anche in Elicoide ma rimaneva assolutamente sotto traccia. Ora invece il ritmo è più esplicito e anche più fruibile. Anche l’attenzione ai suoni è molto più alta e raffinata. Mi sono concesso anche qualche aroma vintage: da qualche tempo nuovi software hanno rimesso a disposizione sonorità tipiche di fine anni sessanta/inizio settanta, ovvero sono stati digitalizzati i nastri dei vecchi mellotron, i cui suoni un po’ statici ricordano fortemente quegli anni, e in particolare i King Crimson. In generale però non è cambiato davvero tanto il mio modo di realizzare i pezzi, è soltanto diventato più consapevole e sistematico. Se sono cambiato io? Dipende… Se chiudo gli occhi e ci ripenso mi riconosco perfettamente ancora nel quindicenne che ascoltava rapito la magia di Selling England by the Pound dei Genesis fresco di stampa. Sotto altri punti di vista sono cambiato enormemente, sono cambiati i miei orizzonti, le mie conoscenze… ho una vita dietro anziché una vita davanti e questo ti cambia molto la prospettiva… sono molto meno depresso oggi rispetto ad allora.
Il tuo album “Elicoide” ha riscosso negli anni ’80 un notevole successo. Diventando un oggetto di culto ricercato dai collezionisti, soprattutto in Giappone e negli Stati Uniti. Quali sensazioni ti ha suscitato ottenere questo riscontro da parte del pubblico?
È stato indubbiamente un successo di critica e di diffusione nei più lontani paesi del mondo, ma certo non può dirsi un successo di vendite! Erano gli anni di Thriller, di True Blue e di tanti altri dominatori delle Hit Parade… onestamente credevo che il mio lavoro fosse stato decisamente dimenticato. Quando, alcuni anni fa, mi sono reso conto di cosa stesse accadendo, la prima reazione è stata di incredulità. Ricevevo contatti dai mezzi più stani, perfino la messaggeria di Soundcloud, dove mi veniva chiesto se ero io l’autore di Elicoide. Non capivo, non credevo. Poi guardando misteriosi siti in giapponese dove vedevo la copertina del mio disco e tanti ideogrammi incomprensibili ho capito che quel disco apparentemente dimenticato era cercato e scambiato. Poi arrivarono gli italiani, e arrivammo alla ristampa, e alla presentazione a Roma nel 2017. Fu davvero un’esperienza toccante suonare di nuovo in pubblico, dopo anni di rinuncia e silenzio.
Come giudichi l’attuale mercato musicale? E quali differenze riscontri tra gli anni ’80 ed oggi?
Credo che oggi con l’avvento del digitale abbiamo portato a compimento una rivoluzione iniziata più o meno un secolo fa. Ora tutto è contemporaneamente presente da un certo punto di vista non c’è più una storia della musica ma una musica del presente. Posso aprire Spotify e ascoltare uno accanto all’altro Monteverdi, Bach, musica tradizionale armena, Jazz scandinavo, canto gregoriano… Molto presto si potrà ascoltare anche Elicoide in originale, grazie all’intervento di una etichetta newyorkese, la Mexican Summer. Oggi si può fare musica attingendo davvero ovunque. Il mercato sembra in grado di assorbire virtualmente qualunque prodotto, Anche se naturalmente il pop più industriale e patinato continua a tenere banco.
C’è ancora spazio per la musica elettronica e per la sperimentazione?
Assolutamente sì. Ovviamente lo spirito non è quello di aprire Nuovi Orizzonti grazie a tecnologie nuove perché a questo livello siamo in una fase matura. Naturalmente esiste ancora spazio anche per musica fatta con strumenti tradizionali. Credo che l’elettronica oggi oltre al permeare comunque la gran parte della produzione musicale, Se non altro per la sua diffusione, offre spunto a una sperimentazione più psicologica: le sue tecnologie mature permettono di dare corpo ai sogni più intimi e folli del musicista.
Secondo te, i nuovi strumenti tecnologici non tolgono spazio alla creatività, avendo infinite e “facili” soluzioni realizzative? Cosa ne pensi?
Questa è indubbiamente una questione aperta. Credo però che la creatività sia un fenomeno delicato che in molti ambiti musicali era già morta prima dell’avvento delle nuove tecnologie. Ad esempio nel jazz ci sono stati lunghi periodi di stagnazione dove non si faceva altro che riscaldare vecchi stilemi e non era certo colpa dell’elettronica! Anzi in quell’ambito per certi versi l’avvento di nuove tecnologie ha portato aria nuova. Com’è normale: ogni nuova tecnica porta modi nuovi di fare musica. Nei primi anni Settanta Mike Oldfield stupì il mondo registrando Tubular Bells, un album che grazie alla registrazione multitraccia, poté incidere da solo suonando via via tutti gli strumenti. Oggi l’elettronica permette molto di più. Certo esistono anche fenomeni meno gloriosi: qualsiasi ragazzino può aprire GarageBand su un iPad trovando schemi ritmici e di accompagnamento già fatti e può creare pezzi che a prima vista sembrano fatti da professionisti. Perché stupircene? Lo sentiamo tutti i giorni nella pubblicità: qualcuno mette in tavola un prodotto industriale di massa e tutti entusiasti a dire che è buono come quello che cucinava nonna Genoveffa o il grande chef. Le applicazioni di musica prefabbricata sono la bustina dei surgelati di chiunque voglia provare a fare musica e prendersi un applauso o qualche volta qualcosa di più. Questo può rattristare un po’, ma fa parte dei rischi calcolati della specie uomo. Probabilmente siamo alle soglie della nostra estinzione, che importa se un dodicenne può mandare un pezzo in classifica e diventare milionario?
Preferisci guardare al passato con nostalgia, o proiettarti nel futuro con nuove idee?
Trovo che sia molto ironico parlare di idee nuove, come se si sapesse come sono fatte. Una idea nuova normalmente non si presenta come tale, non c’è sopra l’etichetta “io sono un’idea nuova“… se un’idea porta questa etichetta e soprattutto se piace a tutti probabilmente non è nuova. Che cos’è in fondo una idea nuova? L’unica verità è che non lo sappiamo perché di tante idee assurde o stupide non sappiamo quale si rivelerà capace di farsi spazio nel mondo di domani. Oltretutto nel campo musicale abbiamo una tale densità e quantità di prodotti di ogni tipo, di ogni genere, che esauriscono in ogni istante le potenzialità che un musicista del ‘500 poteva esprimere al massimo in una vita intera. In uno scenario del genere la nostalgia è al massimo un fatto privato per passare una serata. Ci piaccia o no siamo condannati al presente e ad accettare tutto ciò che esso contiene, e a cercare, forse trovare in mezzo a tanto rumore un suono che ci porti qualcosa.
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